Retelegale

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Studio Cataldi - Diritto del Lavoro

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venerdì 30 ottobre 2009
la Corte di Cassazione. sez. Lav, con la sentenza del 14.05.2009, n. 11206 muta radicalmente il proprio consolidato orientamento in tema di computo del periodo di formazione e lavoro ai fini degli aumenti retributivi periodici.
In particolare la Suprema Corte ha stabilito che " Non si pone in contrasto con norma imperativa la clausola del contratto collettivo che, nel disciplinare gli aumenti retributivi periodici, escluda l’utile computo del periodo di formazione e lavoro, non negando, la disposizione de qua, l’anzianità di servizio stabilita dalla legge, ma limitandosi a prevedere una decurtazione retributiva per i dipendenti il cui apporto alla produttività aziendale sia stato ridotto a causa della specificità del rapporto di formazione e lavoro (la controversia concerneva l’Accordo interconfederale 18 dicembre 1998 e il CCNL per i dipendenti delle ferrovie statali 7 luglio 1995")
Dott. Giangiacomo Magni
lunedì 28 settembre 2009

PostHeaderIcon IL LAVORATORE HA DIRITTO DI SVOLGERE LA PROPRIA PRESTAZIONE

La controversia decisa dalla Corte di Cassazione, sez. Lavoro, con la recentissima sentenza del 30 luglio 2009 , n. 17778, ha ad oggetto la domanda di una lavoratrice che trovandosi in una situazione di "ferie forzate" unilateralmente imposte dalla società resistente chiedeva il ripristino del rapporto lavorativo oltre il risarcimento del danno alla prorpia professionalità.
Di seguito si riporta la massima:
"Il lavoratore ha il diritto di svolgere la propria prestazione e di non essere lasciato inattivo, poiché il lavoro non è solo fonte di sostentamento, ma anche mezzo per la realizzazione delle proprie capacità e contribuzione al progresso e all'evoluzione del consesso sociale. La violazione di tale diritto è fonte di responsabilità per il datore di lavoro, pienamente soggetta alle regole della responsabilità contrattuale; ne deriva che se essa prescinde da uno specifico intento di svilire o declassare il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità deve essere esclusa, oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro, connessa all'esercizio di poteri imprenditoriali garantiti dall' art. 41 cost. o di poteri disciplinari, anche quando l'inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all'obbligato, che resta gravato dell' onere della relativa prova".
martedì 28 luglio 2009

PostHeaderIcon La Cassazione su via Rasella: partigiani, non «massacratori»-tratto dal sito http://archiviostorico.corriere.it articolo di Lavinia Di Gianvito

La Cassazione su via Rasella: partigiani, non «massacratori»
ROMA - Non si possono definire «massacratori», né tanto meno «massacratori di civili», i partigiani di via Rasella. Sono «affermazioni lesive della dignità e dell' onore dei destinatari», scrive la Cassazione, che con la sentenza 16916 torna a occuparsi dell' attentato del 23 marzo 1944 contro i tedeschi del battaglione SS Bozen. La controversia è iniziata diversi anni fa, in seguito a una pronuncia della Suprema Corte che qualificò l' attacco «legittimo atto di guerra». In quell' occasione Il Tempo accusò i gappisti di essere «massacratori di civili». Elena Bentivegna (figlia di Rosario e Carla Capponi, medaglia d' oro per la Resistenza, morta nel 2000) citò in giudizio il quotidiano per danni morali, ma sia in primo, sia in secondo grado la richiesta di risarcimento fu respinta: nel 2004 la corte d' appello stabilì che il termine incriminato deve intendersi come «la sintesi di un legittimo giudizio storico negativo». Non è così, sostiene invece la Cassazione, perché la parola «massacratori» «evoca unicamente il concetto di trucidare facendo scempio, di far strage». E «l' ulteriore specificazione che di quel massacro furono destinatari i civili assume aspetti non equivocabili nè metaforici in punto di immediata evocazione non già di negativi giudizi storici, ma di affermazioni lesive della dignità e dell' onore dei destinatari». Perciò il ragionamento della corte d' appello «si infrange sull' inequivoco significato del termine usato e pecca per omissione» laddove non valuta l' abbinamento tra le parole «massacratori» e «civili», che produce «l' evidente effetto di accostare l' atto di guerra compiuto dai partigiani all' eccidio di connazionali inermi». Adesso la causa tornerà in corte d' appello per il calcolo dei danni. Ma non è questo il punto. «Per la centesima volta la verità storica è stata riconfermata e quindi qualcuno comincerà a crederci», osserva Rosario Bentivegna, 87 anni. Anche per il PdCi la sentenza è una pietra miliare: «D' ora in poi - sottolinea Alessandro Pignatiello - chi punta a fare becero revisionismo non potrà prescindere da quanto sancito dalla Suprema Corte». Alessio D' Amato, consigliere Pd alla Regione Lazio, esulta per un verdetto che «rende finalmente onore alla storia». Lavinia Di Gianvito
Di Gianvito Lavinia
Pagina 20(23 luglio 2009) - Corriere della Sera
venerdì 19 giugno 2009

PostHeaderIcon Giusta causa di licenziameno- tratto dal sito: http://www.overlex. pubblicato dalla Dott.ssa Daria Perrone

NOTA A SENTENZA: Cass. civ., sez. lavoro, 10 febbraio 2009, n. 6569

Giusta causa di licenziamento - frasi offensive verso il datore di lavoro - negazione

Nella pronuncia in esame, la Corte si sofferma sui requisiti per l’esistenza di una giusta causa di licenziamento. In particolare, secondo i giudici di legittimità, l'esistenza di una giusta causa di licenziamento deve rivestire in concreto il carattere di “grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, per la precisione, di quello fiduciario”.
Quindi, occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare (nello stesso senso, ex plurimis, Cass. nn. 20221/2007; 24349/2006; 19270/2006; 12001/2003).
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che le espressioni «irriguardose» (ma non minacciose) rivolte dal lavoratore all'amministratore della società debbano essere valutare nel complessivo contesto in cui erano state pronunciate.
Si trattava nel caso specifico, di un contesto caratterizzato da un alterco intervenuto fra i due, in cui è comprensibile la reazione emotiva ed istintiva del lavoratore ai rimproveri ricevuti. Tutto ciò vale ad escludere nel caso di specie la particolare gravità contrattualmente richiesta per potersi fare applicazione della sanzione punitiva.


******
(omissis)

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
Sezione Lavoro
(…)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso proposto il 23-10.2002 avanti al giudice del lavoro di Napoli, (..) impugnò il licenziamento intimatogli dalla (..) in data 18.6.2002, in forza di precedente lettera di contestazione del 29.5.2002, con la quale gli era stato addebitato che:
- il giorno 15.5.2002, durante lo svolgimento delle sue mansioni di ausiliario addetto al servizio stoviglie, aveva caricato eccessivamente il carrello portavivande, per cui in tal modo aveva determinato la distruzione delle stoviglie ivi trasportate, occorrenti ai tre piani di degenza, avendo così disatteso la disposizione aziendale, piu' volte ribaditagli, secondo cui il trasporto doveva avvenire un piano per volta;
- il giorno 16.5.2002, aveva di nuovo caricato eccessivamente il carrello portavivande, così provocando la rottura di piatti, bicchieri e tazze, nel frangente trasportati ed occorrenti per il pranzo dei degenti del II e V piano, così contravvenendo ulteriormente alla suddetta disposizione aziendale;
- il giorno 28.5.2002 sempre durante lo svolgimento delle sue mansioni, aveva spinto con violenza il carrello portavivande contro la gabbia contenente le bombole di ossigeno e quindi, di seguito all'invito ricevuto dall'amministrazione della società (…)
a prestare piu' attenzione nell'uso, corretto, del carrello, alla presenza di vari compagni di lavoro, aveva proferito verso il predetto amministratore frasi ingiuriose e minacciose (del tipo «chi cazzo ti credi di essere, se sei un uomo esci fuori, non ti faccio campare piu' tranquillo»).
Il ricorrente dedusse che, per gli episodi del 15 e del 16 maggio, il tutto si era verificato in quanto il carrello, carico di stoviglie, aveva ceduto, mentre per i fatti del 28 maggio egli era stato solo intento a spingere il carrello vuoto, di cui aveva perso il controllo, così da urtare la gabbia in cui erano allocate le bombole di ossigeno, e che, in tale occasione, l'amministratore della società aveva inveito nei suoi confronti e lo aveva aggredito fisicamente, procurandogli un trauma all'arto superiore, così come riportato nell'apposito referto rilasciato dall'ospedale Cardarelli, presso cui si era recato al termine del turno di servizio; osservò che non era stata emanata alcuna disposizione in ordine alle modalità di carico dei carrelli per un solo piano alla volta e che il ribaltamento dei carrelli era dipeso dal loro cattivo stato di manutenzione; escluse, inoltre, di aver mai pronunciato le ricordate espressioni nei riguardi dell'amministratore della società.
Radicatosi il contraddittorio e sulla resistenza della parte datoriale, il Giudice adito, ritenuta la sproporzione tra gli addebiti accertati e la sanzione inflitta, dichiarò l'illegittimità del licenziamento impugnato, disponendo per la reintegrazione nel posto di lavoro e per il risarcimento del danno alla stregua della ritenuta applicabilità della cosiddetta tutela reale.
La corte d'appello di Napoli, con sentenza in data 22.3 – 17.5.2005, respinse l'appello proposto dalla (….) osservando a sostegno del decisum, per ciò che qui rileva, quanto segue:
- non era emersa la prova di alcuna aggressione o minaccia posta in essere da (….) nell'episodio del 28.5.2002;
- mancava la prova del grave inadempimento del lavoratore giustificativo del licenziamento, difettando ogni concreto indizio a conforto dell'ipotizzata insubordinazione, posto che l'animata discussione intervenuta tra il (..) e l'amministratore andava ricondotta nei ragionevoli e ridotti termini già congruamente ricostruiti e apprezzati dal primo Giudice, non potendo neppure escludersi una provocazione ed una conseguente colluttazione innescata dallo stesso (…..) tenuto conto che, se nessuno dei testimoni aveva potuto riferire in ordine all'aggressione denunziata dal lavoratore neppure, era stato in grado di riferire in ordine alle precise modalità di origine della lite; le frasi irriguardose, ma non minacciose, attribuite al (….) da due dei vari testi escussi andavano correttamente inquadrate e ridimensionate in un contesto di emotiva e istintiva reazione, ed erano «presumibilmente» ascrivibili al fatto che egli era stato aspramente redarguito e «forse» anche aggredito fisicamente, apparendo «del tutto inverosimile» che il (...) si potesse essere rivolto in malo modo ed in assenza di una precisa causa scatenante verso il superiore, per giunta con il preciso e consapevole intento di ribellarsi allo stesso e di contestare la sua autorità gerarchica in ambito aziendale, per conseguenza, il fatto di aver profferito la frase «chi cazzo credi di essere» o «chi ti credi di essere», nello specifico contesto e allo stato degli atti, poteva spiegarsi unicamente come reazione ad un eccessivo e sgarbato rimprovero e non potevano integrare gli estremi di una vera e propria insubordinazione, a sua volta rilevante irrimediabilmente sul rapporto di fiducia;
- i requisiti del notevole inadempimento e della sussistenza della particolare gravità del fatto, richiesti dal CCNL di settore per potersi far luogo alla sanzione espulsiva anche in ipotesi di insubordinazione o di negligente esecuzione delle disposizioni impartite, erano mancanti sia con riferimento alle rotture delle stoviglie nei giorni 15 e 16 maggio 2002, sia in ordine all'alterco del successivo 28 maggio;
- secondo il disposto dell'art. 7, ultimo comma, legge n. 300/70, non poteva tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari in precedenza irrogate una volta decorsi due anni dalla loro applicazione.
Avverso l'anzidetta sentenza della corte d'appello di Napoli la (…..) ha proposto ricorso per cassazione fondato su dieci motivi e illustrato con memoria.
L'intimato (….) ha resistito con controricorso, illustrato con memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
La Corte territoriale ritenuto la mancanza di ogni concreto indizio a conforto dell'ipotizzata insubordinazione e per aver ritenuto che le frasi profferite dal (….) all'indirizzo dell'amministratore potevano spiegarsi unicamente come reazione ad un eccessivo e sgarbato rimprovero, seguito da vie di fatto, in quanto presumibilmente aspramente redarguito e forse anche aggredito fisicamente; sostiene al riguardo la ricorrente che il (….) non aveva provato, come era suo onere, i fatti giustificativi del suo comportamento, quale reazione ad una pretesa condotta datoriale illegittima; contraddittoriamente, inoltre, la sentenza impugnata aveva dapprima accertato che non vi era stata alcuna aggressione effettuata dall'amministratore e poi giustificato il comportamento del lavoratore sulla base di una presumibile aggressione verbale e forse anche fisica ai suoi danni.
Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 cc. E dell'art. 3 legge n. 604/1966 nonché vizio di motivazione, in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, cpc, per avere la corte territoriale ritenuto che le espressioni pronunciate dal (….) all'indirizzo dell'amministratore delegato, così come accertate, non costituivano insubordinazione di particolare gravità (e dunque notevole inadempimento), integrando con ciò la giusta causa ovvero il giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
la Corte territoriale erroneamente ritenuto che l'amministratore delegato (…..) non fosse legittimato a presenziare alle udienze di escussione dei testimoni e che la sua presenza avesse indotto «un timore reverenziale condizionante le deposizioni dei testi escussi»
la Corte territoriale ritenuto , in virtù del certificato medico rilasciato in data 28.5.2002 dall'ospedale Cardarelli di Napoli, che il (….) avrebbe riportato lesioni nell'alterco con l'amministratore.
Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7 legge n. 300/70 e 2697 cc., nonché vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 comma 1, nn.3 e 5, cpc, per avere erroneamente la corte territoriale ritenuto, in riferimento agli episodi del 15 e 16 maggio 2002, che non fosse stata provata la negligenza del lavoratore, quale unico fattore causale dei sinistri, diversamente attribuibili anche a difetti strutturali dei carrelli in dotazione.
la Corte territoriale ritenuto che gli episodi del 15 e 16 maggio 2002 potessero acquistare rilevanza nel procedimento disciplinare in oggetto solo se concretanti «un notevole inadempimento» e se di «particolare gravità».
Con l'ottavo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cc. Nell'interpretazione dell'art. 30 CCNL per i dipendenti da case di cura private del 13.10.1999, in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3 cpc, per avere la corte territoriale erroneamente ritenuto che gli inadempimenti contrattuali aggiuntivi rispetto ad altro notevole inadempimento, non possono acquisire rilevanza nel procedimento disciplinare poi sfociato in un licenziamento se non concretanti «un notevole inadempimento» e se non di «particolare gravità».
Con il nono motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cc. Nell'interpretazione dell'art. 33 CCNL per i dipendenti da case di cura private del 13.10.1999, nonché vizio di motivazione in relazione all'art. 360, comma 1, nn. 3 e 5, cpc, per avere la corte territoriale omesso di valutare che, in virtù del predetto art. 33 CCNL, incorre il licenziamento il dipendente che ponga in essere un comportamento sanzionabile comunemente con una sospensione laddove abbia già ricevuto nell'anno due precedenti sospensioni dal lavoro e dalla retribuzione.
Con il decimo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7 legge n. 300/70 , 2119 cc e 3 legge n. 604/66, nonché vizio di motivazione, in relazione all'art. 360 comma 1, nn. 3 e 5, cpc, per non avere la corte territoriale valutato, per l'apprezzamento complessivo del comportamento del (….) ai fini della legittimità del licenziamento, i precedenti provvedimenti disciplinari dallo stesso subiti, sebbene non contestati ai fini della recidiva e sebbene comminati oltre il biennio precedente l'ultima contestazione.
2. Il primo, secondo, terzo e quinto motivo di ricorso, siccome fra loro strettamente connessi, vanno esaminati congiuntamente.
Osserva il collegio che, secondo il condiviso orientamento di questa Corte, per stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario,occorre valutare da un lato la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all'intensità dell'elemento intenzionale, dall'altro la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare (cfr. ex plurimis, Cass. nn. 20221/2007; 24349/2006; 19270/2006; 12001/2003).
Nel caso di specie la corte territoriale, con apprezzamento di fatto incensurabile in questa sede di legittimità, ha ritenuto sulla scorta delle deposizioni testimoniali diffusamente richiamate, che le espressioni «irriguardose» (ma non minacciose) rivolte dal (….) all'amministratore (….), andavano valutate nel complessivo contesto in cui erano state pronunciate caratterizzato da un alterco intervenuto fra i due, e ritenendole con plausibile valutazione effetto di una reazione «emotiva ed istintiva» del lavoratore ai rimproveri ricevuti, con ciò escludendone l'ascrivibilità ad una ipotesi di vera e propria insubordinazione e, comunque, la particolare gravità contrattualmente richiesta per potersi fare applicazione della sanzione punitiva.
L'ulteriore accenno al fatto che «forse» (….) poteva essere stato aggredito fisicamente dall'amministratore non svolge proprio perché chiaramente espresso in forma dubitativa, un ruolo determinante nella valutazione di merito resa dalla Corte territoriale, cosicché non può ravvisarsi una contraddittorietà con la pur chiaramente indicata assenza di prove in ordine all'aggressione denunziata dal lavoratore.
Del pari sostanzialmente irrilevante nell'ampio contesto motivazionale adottato, è poi l'accenno al fatto che solo il lavoratore aveva riportato delle lesioni, cosicché anche sotto tale specifico profilo deve essere escluso il denunciato vizio di contraddittorietà della decisione impugnata, che presuppone l'essere state poste a fondamento della decisione ragioni sostanzialmente contrastanti, tali da elidersi a vicenda e da non consentire l'individuazione della ratio decidendi, cioè l'identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione adottata (cfr, ex plurimis, Cass. n. 11936/2003).
I motivi di ricorso all'esame non possono essere quindi accolti.
2. Il quarto motivo di ricorso è inammissibile per carenza di interesse, poiché le considerazioni della Corte territoriale su un «verosimile timore reverenziale condizionante le deposizioni dei testi escussi tutti ancora dipendenti della convenuta» e sul fatto che le deposizioni erano state «talvolta» rese alla presenza del (….) che per tabulas non risultava a ciò legittimato, non si sono tradotte nell'affermazione di inattendibilità di taluna delle deposizioni testimoniali acquisite e, quindi, non hanno avuto incidenza sostanziale sulla decisione assunta.
3. Il sesto motivo di ricorso risulta infondato, poiché l'affermazione che non poteva ritenersi adeguatamente provata la colposa negligenza del lavoratore , quale unico fattore causale dei sinistri accaduti il 15 e il 16 maggio , siccome «diversamente attribuibili anche a difetti strutturali dei carrelli in dotazione» da un lato è di natura meramente rafforzativa («per giunta») rispetto alla già precedentemente affermato insussistenza dei richiesti requisiti del notevole inadempimento e della particolare gravità del fatto, dall'altro va ricollegata ai richiami in precedenza effettuati alle testimonianze acquisite sul punto, cosicché le censure svolte dalla ricorrente si risolvono nella richiesta di un riesame, inammissibile in questa sede, di tali risultanze processuali.
4. Secondo il condiviso orientamento di questa corte in tema di licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, allorquando vengano contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, il giudice di merito non deve esaminarli atomisticamente, riconducendoli alle singole fattispecie previste da clausole contrattuali, ma deve valutarli complessivamente, al fine di verificare se la loro rilevanza complessiva sia tale da minare la fiducia che il datore di lavoro deve poter riporre nel disdente (cfr, ex plurimis, Cass. nn. 6454/2006; 6668/2004; 13536/2002).
La corte territoriale, richiamandosi a un peraltro male interpretato arresto di questa Corte (Cass. n. 12678/1992), si è viceversa limitata ad escludere che ciascuno dei tre addebiti contestati presentasse – in sé considerato – i requisiti richiesti per giustificare il ricorso alla sanzione espulsiva, omettendo tuttavia di valutare globalmente i tre episodi, traendone le necessarie conclusioni sul piano della loro eventuale complessiva idoneità a configurare un notevole inadempimento e ad incidere quindi in maniera irreversibile sull'elemento fiduciario.
Il settimo motivo di ricorso si presenta quindi fondato.
5. L'ottavo e il nono motivo di ricorso sono inammissibili, non avendo la parte ricorrente, in ottemperanza al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, riportato il contenuto delle norme contrattuali collettive di cui lamenta l'erronea interpretazione o l'omessa considerazione.
6. Secondo il condiviso orientamento di questa Corte il principio della immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare mosso al lavoratore ai sensi dell'art. 7 statuto lavoratori preclude al datore di lavoro di licenziare per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati, e collocatisi a distanza anche superiore ai due anni del recesso, quali circostanze confermative della significatività di altri addebiti posti base di licenziamento, al fine di valutazione della complessiva gravità, sotto il profilo psicologico delle inadempienze del lavoratore e della proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio dell'imprenditore, non ostando a tale valutazione la disposizione di cui all'ultimo comma dell'art. 7 legge n. 300/70 (cfr., ex plurimis, CAss. nn. 7734/2003; 9811/1998; 1925/1998; 6523/1996; 5093/1995).
La corte territoriale si è discostata da tale orientamento interpretativo, affermando come già ricordato nell'istorico di lite, che, in base all'art. 7, ultimo comma, legge n. 300/70, non poteva tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari in precedenza irrogate una volta decorsi due anni dalla loro applicazione e, con ciò omettendo qualsiasi valutazione, sia pure quali circostanze confermative della significatività e gravità degli addebiti contestati, in ordine ai precedenti disciplinari allegati dalla parte datoriale.
Anche il decimo motivo di ricorso risulta quindi fondato.
7. In base alle considerazioni che precedono va quindi riconosciuta la fondatezza del settimo e del decimo motivo di ricorso, che nel resto deve invece essere disatteso.
La sentenza impugnata va quindi cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio per nuovo esame al Giudice indicato in dispositivo, che giudicherà conformandosi ai su indicati principi di diritto e provvederà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il settimo e il decimo motivo di ricorso, rigetta nel resto cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese, alla corte d'Appello di Napoli in diversa composizione.
Così deciso in Roma il 10 febbraio 2009.
DEPOSITATO IN CANCELLERIA
IL 18 MARZO 2009
giovedì 28 maggio 2009

PostHeaderIcon LICENZIAMENTO DISCIPLINARE - Tratto da: http://www.legge-e-giustizia.it


IL GIUDICE NON DEVE APPLICARE AUTOMATICAMENTE LA SANZIONE DEL LICENZIAMENTO PREVISTA DAL CONTRATTO COLLETTIVO PER UNA DETERMINATA INFRAZIONE - E' necessaria una valutazione sull'adeguatezza nel caso specifico (Cassazione Sezione Lavoro n. 11846 del 21 maggio 2009, Pres. Ianniruberto, Rel. Balletti)
Vinicio B. dipendente della spa Fezia Grandi Alberghi con la qualifica di barman è stato licenziato in base a due addebiti: ritardato invio di certificazione medica in occasione di un'assenza per malattia; tardiva chiusura, in altra occasione, dei conti del bar dell'albergo. Egli ha chiesto al Tribunale di Firenze di annullare il licenziamento anche per l'eccessività della sanzione. L'azienda si è difesa facendo presente che la sanzione del licenziamento, era prevista, per il ritardo nell'invio del certificato medico, dagli articoli 118 e 14 del c.c.n.l. turismo e che la tardiva chiusura dei conti configurava un'irregolarità fiscale. Il Tribunale ha accolto la domanda, ordinando la reintegrazione nel posto di lavoro e condannando l'azienda al risarcimento del danno. In grado di appello la Corte di Firenze ha confermato questa decisione, in quanto ha ritenuto eccessiva la sanzione, essendo risultato che il lavoratore aveva avvisato l'azienda per il tramite di suo fratello e successivamente inviato il certificato che comprovava indiscutibilmente lo stato di malattia. L'azienda ha proposto ricorso per cassazione, censurando la decisione impugnata per vizi di motivazione e violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Lavoro n. 11846 del 21 maggio 2009, Pres. Ianniruberto, Rel. Balletti) ha rigettato il ricorso. Ove la contrattazione collettiva preveda, quale ipotesi di giusta causa di licenziamento, l'omessa o tardiva presentazione del certificato medico in caso di assenza per malattia oppure l'inadempimento di altri obblighi contrattuali specifici da parte del lavoratore - ha affermato la Corte - la valutazione in ordine alla legittimità del licenziamento, motivato dalla ricorrenza di una di tali ipotesi, non può conseguire automaticamente dal mero riscontro che il comportamento del lavoratore integri la fattispecie tipizzata contrattualmente, ma occorre sempre che quest'ultima sia riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo. Di conseguenza, la disposizione del contratto collettivo in merito al ritardato invio del certificato medico deve essere valutata nel senso che la sanzione del licenziamento per giusta causa può essere legittimamente irrogata solo quando non siano sussistenti cause giustificative (e, quindi, sotto il profilo della colpa o del dolo, l'infrazione contestata sia inescusabile) e, comunque, nel rispetto del "principio della proporzionalità".
In tema di sanzioni disciplinari - ha precisato la Corte - il fondamentale principio di proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della infrazione deve essere rispettato sia in sede di irrogazione della sanzione da parte del datore di lavoro nell'esercizio del suo potere disciplinare, sia in sede di controllo che, della legittimità e della congruità della sanzione applicata, il giudice è chiamato a fare; a tale riguardo, ha carattere indispensabile la valutazione, ad opera del giudice del merito, investito del giudizio circa la legittimità di tali provvedimenti, della sussistenza o meno del rapporto di proporzionalità tra l'infrazione del lavoratore e la sanzione irrogatagli, per cui il giudice deve tenere conto non solo delle circostanze oggettive, ma anche delle modalità soggettive della condotta del lavoratore in quanto anche esse incidono sulla determinazione della gravità della trasgressione e, quindi, della legittimità della sanzione stessa: con la conclusione che l'apprezzamento di merito delle proporzionalità tra infrazione e sanzione sfugge a censura in sede di legittimità se la valutazione del giudice di merito è sorretta da adeguata e logica motivazione.
mercoledì 27 maggio 2009

PostHeaderIcon DANNO MORALE E DANNO BIOLOGICO ONTOLOGICAMENTE DIVERSI Autore Giuseppe Buffone Tratto da: http://www.altalex.com

Il Legislatore smentisce le S.U. 26972/2008: danno morale e danno biologico, ontologicamente diversi
(Deus Ex Machina: d.P.R. 37/2009)
di Giuseppe Buffone
A suo tempo si è detto che il codice delle Assicurazioni private (d.lgs. 209/2005) “entra in vigore nel 2005, anno in cui, per giurisprudenza stratificata nel tempo l’art. 2059 cod. civ. è interpretato nel senso di contenere due distinte ed autonome categorie risarcitorie: il danno biologico ed il danno morale”1.
Si è, allora, affermato, richiamando “il canone interpretativo del cd. legislatore consapevole”2, che il Legislatore ha fatto una espressa ed univoca scelta interpretativa: il danno morale è da trattare come posta liquidatoria del tutto autonoma e non assorbibile nel danno biologico.
Si è, dunque, concluso nel senso di ritenere che la tesi della somatizzazione del pretium doloris non trovasse riscontro nel diritto positivo3.
La querelle, come noto, nasce in seguito agli arresti delle Sezioni Unite dell’11 novembre 2008 (n. 26972 – n. 26975) ove il Collegio di legittimità ha ricondotto ad unità il danno non patrimoniale accantonando definitivamente la figura del danno morale e licenziando, senza preavviso, il danno esistenziale.
Il Plenum, in particolare, ha concluso nel senso di ritenere che il danno biologico sia partecipato dal danno morale che ne costituisce una componente, circostanza che impedisce una liquidazione separata delle due voci di pregiudizio (non ontologicamente autonome).
Per danno morale, l’interpretazione vigente fino all’11 novembre 2008, faceva riferimento al concetto di «dommage moral», introdotto al fine di salvaguardare l’integrità morale della vittima dell’illecito, bene giuridico presidiato dall’art. 2 della Costituzione in relazione all’art. 1 della Carta di Nizza, nonchè al Trattato di Lisbona, ratificato dall'Italia con L. 2 agosto 2008, n. 130, che tutela la Dignità umana come la massima espressione della sua integrità morale e biologica (Cass. civ., sez. III, 12 dicembre 2008, n. 29191).
Ne veniva costantemente affermata la autonomia ontologica, nell’ambito dell’art. 2059 c.c., assioma che ne rendeva censurabile una liquidazione effettuata, in modo automatico, nella misura pari alla metà del danno biologico4.
L’interpretazione suaccennata aveva trovato, nel 2003, il definitivo vaglio delle Alte Corti. In particolare, la Consulta aveva statuito che nell'astratta previsione della norma di cui all'art. 2059 c.c. dovesse ricomprendersi ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona: sia il danno morale soggettivo, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima; sia il danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell'interesse, costituzionalmente garantito, all'integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico (art. 32 Cost.); sia infine il danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (Corte cost., 11 luglio 2003, n. 233 5).
La norma ex art. 2059 c.c., quale vive nell’ordinamento, si manifestava, dunque, agli interpreti nel senso che danno biologico e danno morale subbiettivo avessero “natura diversa e non si identificano in alcun modo” (così Corte cost., 22 luglio 1996, n. 2936), perché “il danno biologico consiste nella lesione dell'integrità psicofisica, mentre il danno morale è costituito dalla lesione dell'integrità morale” (Cass. civ., Sez. III, 12 luglio 2006, n. 157607).
A poca distanza di tempo dalle SS.UU. della Cassazione8 (v. decisione n. 26972/2008 9), si registra un importante intervento del Legislatore che, seppur in una materia del tutto peculiare ed intervenendo in un settore speciale, rivela un ragionamento in evidente contrasto con quello fatto dalla SS.UU. 26972/08. Si tratta del d.P.R. 3 marzo 2009, n. 37 (Regolamento per la disciplina dei termini e delle modalità di riconoscimento di particolari infermità da cause di servizio per il personale impiegato nelle missioni militari all'estero, nei conflitti e nelle basi militari nazionali, a norma dell'articolo 2, commi 78 e 79, della legge 24 dicembre 2007, n. 24410). L’art. 5 del suaccennato decreto, introduce criteri legali per la determinazione dell'invalidità permanente, nel modo che segue.
% di IP
Invalidità permanente
La percentuale d'invalidità permanente (IP), riferita alla capacità lavorativa, e' attribuita scegliendo il valore più favorevole tra quello determinato in base alle tabelle per i gradi di invalidità e relative modalità d'uso approvate, in conformità all'articolo 3, comma 3, della legge 29 dicembre 1990, n. 407, con il DM 5 febbrai 1992 e successive modificazioni, e il valore determinato in base alle tabelle A, B, E ed F1 annesse al decreto del Presidente della Repubblica 23 dicembre 1978, n. 915
% di DB
Danno biologico
La percentuale del danno biologico (DB) e' determinata in base alle tabelle delle menomazioni e relativi criteri applicativi di cui agli articoli 138, comma 1, e 139, comma 4, del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, e successive modificazioni
% di DM
Danno morale
La determinazione della percentuale del danno morale (DM) viene effettuata, caso per caso, tenendo conto della entità della sofferenza e del turbamento dello stato d'animo, oltre che della lesione alla dignità della persona, connessi e in rapporto all'evento dannoso, in una misura fino a un massimo di due terzi del valore percentuale del danno biologico
% di IC
Invalidità complessiva
la percentuale di invalidità complessiva (IC), che in ogni caso non puo' superare la misura del cento per cento, e' data dalla somma delle percentuali del danno biologico, del danno morale e del valore, se positivo, risultante dalla differenza tra la percentuale di invalidità riferita alla capacità lavorativa e la percentuale del danno biologico: IC = DB+DM+ (IP-DB)
Due rilievi sono importanti.
1) Il Legislatore “collega” il danno biologico menzionato nel decreto in commento (37/09) a quello di cui al Codice delle assicurazioni private (d.lgs. 209/05).
2) nella determinazione del danno morale si deve tenere conto della “lesione alla dignità della persona”.
E’ chiaro, quanto al primo punto, che il Legislatore va introducendo un sistema risarcitorio del danno biologico compatto ed omologato, come disegnato nel d.lgs. 209/05 (artt. 138, 139), il che rende i teoremi del decreto 37/2009 non certo periferici ma emersione, a valle, di una mens legis unitaria a monte.
E’, evidente, quanto al secondo punto, che il Legislatore richiama la giurisprudenza che ha dichiarato l’autonomia ontologica del danno morale facendone presidio della dignità umana, per come si è già scritto.
Una considerazione è dirompente: il Legislatore, almeno stavolta, è assolutamente chiaro poiché ricorre alle formule matematiche.
L’invalidità complessiva è uguale a: “DB + DM” (…).
Danno biologico che si cumula al danno morale.
Sconfessata, expressis verbis, la tesi della somatizzazione del pretium doloris.
Il ricorso alle “formule matematiche” (DB + DM) ed alle “sigle” (DB, DM) sembra quasi voler scongiurare il rischio di una Torre di Babele interpretativa ove ogni augure assegna al concetto il significato giuridico che più gli aggrada.
Va, comunque, ricordato che il Giudice ha il dovere – in quanto sottoposto alla Legge – di guardare all’intero sistema normativo per evincere l’interpretazione che più delle altre (o unica tra le tante) rispetta la sovranità popolare come espressa dagli organi rappresentativi. Ed, allora, laddove il Legislatore indichi chiaramente un percorso ermeneutico, a questo l’interprete resta vincolato.
Il decreto che si commenta, a questo punto, dovrebbe indurre gli interpreti a rimeditare l’ermeneutica del danno non patrimoniale ex art. 2059 cod. civ. e le sezioni semplici di Cassazione a rimettere, ancora una volta, la questione alle Sezioni Unite per un nuovo esame della questione.
Agli interpreti, formule alla mano, non resta che contare11.
______________
1 V, Buffone, Relazione alla Camera, 6 maggio 2009 in www.altalex.com.
2 Espressamente ricordato da: Cassazione civile, sez. III, 24 agosto 2007, n. 17958. Il canone interpretativo del “Legislatore consapevole” presuppone un Parlamento attento al diritto giurisprudenziale e composto, almeno in parte, da tecnici. Ciò detto, si tratta di un criterio che deve orientare l’interprete verso la scelta ermeneutica più vicina alla volontà sovrana del popolo come rappresentato nelle Camere (criterio che viene troppe volte sminuito o non preso in debita considerazione).
3 Viola, Relazione alla Camera, 6 maggio 2009 in www.altalex.com.
4 Cass. civ., Sez. III, 15 marzo 2007, n.5987 in Resp. civ., 2007, 5, 467.
5 Giur. It., 2004, 723, nota di CASSANO.
6 Giur. It., 1997, I, 314, nota di COMANDE'.
7 Resp. civ., 2007, 1, 28, nota di TOSCHI VESPASIANI.
8 Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972 in Guida al diritto, 2008, 47 18, nota Dalia; Comande'.
9 In Questa riv. 2009, 1 38; cfr. anche Giust. civ. Mass. 2008, 11 1607.
10 G.U. Serie Generale n. 93 del 22 aprile 2009.
11 Per approfondimenti: Viola, Il danno ingiusto, responsabilità precontrattuale, responsabilità speciali, Halley, 2007 Franzoni, Il danno non patrimoniale del diritto vivente, in Il Corriere Giuridico, 2009, 1; Viola, Danni da morte e da lesioni alla persona, Cedam, 2009; Bilotta, I pregiudizi esistenziali: il cuore del danno non patrimoniale dopo le S.U. del 2008, in La Responsabilità Civile, 2009, 01; Busnelli, Le sezioni unite e il danno non patrimoniale, in Riv. Dir. Civ., 2009; Buffone, I limiti risarcitori nel danno non patrimoniale in Responsabilità e risarcimento, 2009, V.
lunedì 25 maggio 2009

PostHeaderIcon ONEROSITA' PRESUNTA DI OGNI ATTIVITA' LAVORATIVA (Nota di Gesuele Bellini tratto dal sito) http://www.altalex.com/

Ogni attività lavorativa è presunta a titolo oneroso salvo che si dimostri la sussistenza di una finalità di solidarietà in luogo di quella lucrativa e fermo restando che la valutazione al riguardo compiuta dal giudice del merito è incensurabile in sede di legittimità se immune da errori di diritto e da vizi logici.
Questa la decisione della Corte di Cassazione, sezione lavoro, 26 gennaio 2009, n. 1833.
La questione ha riguardato due persone, presumibilmente legate da una relazione sentimentale, di cui una prestava attività lavorativa per l’altra, la quale in un secondo momento ha proposto ricorso per vedersi riconoscere le differenze retributive spettanti per il rapporto di lavoro subordinato. Ricorso che, dopo l’accoglimento in primo e secondo grado, giunge all’esame della Corte di Cassazione.
L’interessante sentenza di che trattasi, pone in rilievo l’ipotesi della configurabilità del lavoro prestato per “affectionis vel benevolentiae causa”.
Com’è noto, nel nostro ordinamento la fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato, oltre agli estremi della collaborazione e della subordinazione, è caratterizzata anche dell'onerosità e, pertanto, non ricorre nel caso in cui una determinata attività, ancorché oggettivamente configurabile quale prestazione di lavoro subordinato, non sia eseguita con spirito di subordinazione, né in vista di adeguata retribuzione, ma appunto per "affectionis vel benevolentiae causa" ovvero in omaggio a principi di ordine morale o religioso o in vista di vantaggi che si traggano o si speri di trarre dall'esercizio dell'attività stessa.
Questi ultimi sono dei casi in cui la prestazione viene resa dal lavoratore senza controprestazione, in quanto il lavoratore è motivato da un rapporto di affetto verso il fruitore della prestazione, di familiarità, da un vincolo caritativo o filantropico, ovvero ideale o religioso.
In pratica, quella dell’onerosità è la regola, mentre la gratuità rappresenta l'eccezione, nella quale si esclude la causa tipica di scambio tra lavoro e retribuzione.
Riguardo quest’ultimo aspetto e in modo particolare riguardo il lavoro prestato nell'ambito familiare la giurisprudenza (Cass. 28 novembre 2003, n. 18284) ritiene che lo stesso può presumersi a titolo gratuito per il solo fatto che il fruitore sia uno stretto congiunto (es. il marito rispetto alla moglie, tenendo conto dei confini imposti dal legislatore con la legge n. 175 del 1975 sull'impresa familiare) – anche se in principio non può escludersi del tutto la configurabilità dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra coniugi (Cass. 9 agosto 1996, n. 7378; Cass. 29 maggio 1991, n. 6083) – mentre, al di fuori della sfera familiare, quando il rapporto si assuma gratuito per la presenza di un vincolo politico, ideale, religioso e simili, la prova deve essere positivamente fornita da chi eccepisce la prestazione "affectionis vel benevolentiae causa" e rigorosa.
La giurisprudenza (Cass. 7 novembre 2003, n. 16774), altresì, è dell’avviso che la configurabilità dello svolgimento a titolo gratuito di una prestazione obiettivamente lavorativa, come tale al di fuori del contratto di lavoro in senso tecnico, non trova ostacolo nelle norme costituzionali (art. 36 cost. e artt. 2094, 2099, 2113 e 2126 c.c.) che presuppongono l'onerosità del rapporto, in quanto le stesse, attenendo alla figura tipica del contratto di lavoro, non escludono l'ammissibilità di una prestazione lavorativa con le caratteristiche suindicate, la cui pattuizione è consentita all'autonomia privata.
Nella fattispecie relativa alla sentenza in argomento, elementi ritenuti decisivi che hanno propeso per la configurabilità del rapporto di lavoro subordinato sono stati la mancanza di continuità nella convivenza tra i due soggetti, che veniva spesso interrotta e soprattutto il difetto di condivisione di un tenore di vita comune in relazione ai redditi dell'attività commerciale.
In pratica, non è stata provata una comunanza economica e spirituale, simile a quella che si instaura tra i coniugi, dunque, con anche un’equa partecipazione alle risorse.
Le uniche prove che invece sono risultate sono solo alcune elargizioni (uso gratuito di un appartamento, pagamento di qualche debito, prelevamento gratuito di merce - abiti - dal negozio), le quali comunque non sono state ritenute sufficienti a dimostrare un rapporto di solidarietà tra le due persone e, per tali motivi, la Corte ha rigettato il ricorso.
(Altalex, 21 maggio 2009. Nota di Gesuele Bellini)


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